La sua azienda agricola si chiama Lentisco, ma per una bizzarra sovrapposizione di nomi di persona e di piante, non ha niente a che fare con il lentisco: oggi incontriamo Marco Bertani, floricoltore di Taggia, che tra storie di famiglia, passione per il proprio lavoro e competenza, ci racconta che cosa significa oggi coltivare fronde verdi.
Il Lentisco sembrerebbe dare un’indicazione sull’azienda, invece…
«Esatto, il nome nell’intestazione dell’azienda non ha nulla a che vedere con quello che facciamo! Lentisco è il cognome di mia madre, ovvero quello che prima era il cognome del mio nonno materno, che ha battezzato l’azienda. L’ho voluto mantenere: la mia è un’azienda famigliare, una realtà piccola, e si perde nella notte dei tempi, con almeno un secolo di storia. Coltivavamo Asparagus plumosus e Asparagus Sprengeri nel periodo della prima guerra mondiale, cent’anni fa. Il mio bisnonno fu tra i primi a piantare questi verdi nella zona di Taggia, dove ci troviamo. Da allora siamo ancora qui».
Cos’è rimasto uguale dopo un secolo?
«Sicuramente c’è l’amore verso la campagna che i miei antenati, dai bisnonni a mia madre, avevano. E che ho anche io: ho preso le redini dell’azienda di famiglia perché è una cosa che mi piace fare, mi è sempre piaciuta».
Cosa è cambiato, invece?
«Tutto il resto! Siamo partiti anni fa sempre con il verde coltivato, non nelle serre che abbiamo oggi ovviamente. Fino agli anni ‘60-‘70 la mia famiglia si è occupata di verde ornamentale, un po’ come faccio di nuovo io attualmente. C’è stato poi il periodo in cui abbiamo costruito strutture, ammodernando le antiche campagne, per passare come tanti alla coltivazione in serra di rose, una parte di storia importante della nostra azienda tra la fine degli anni ‘70 e la prima metà degli anni ‘90».
E poi è nuovamente cambiato qualcosa…
«Con una certa lungimiranza, mio padre ha capito che quel tipo di produzione era dispendiosa sotto tutti i punti di vista, tra energia, riscaldamento, concimazioni, fitofarmaci… Era un qualcosa che i costi, come probabilmente si capiva già allora, avrebbero impedito di continuare a fare. E poi c’era l’impatto ambientale: per aziende come la nostra, vicina a zone abitate, era diventato impossibile e, giustamente, non avremmo potuto andare avanti. Abbiamo quindi deciso di colpo, praticamente nell’arco di un anno, intorno al 1995-97, di tornare al passato, cioè coltivare il verde ornamentale e il fogliame dopo vent’anni di rosa. Per una serie di motivi non abbiamo voluto fare il passaggio al reciso con il ranuncolo, il fiore che negli ultimi 10-15 anni sta mandando avanti la filiera: secondo mio padre era giusto tornare un po’ indietro per andare avanti».

Cioè?
«Avevamo capito che il verde e il fogliame tornavano a essere importanti: negli ultimi 10 anni sono andati discretamente bene, permettendo di lavorare. E di farlo, bisogna sottolinearlo, in maniera più sostenibile, aspetto a cui tengo molto».
Per esempio?
«Nel nostro piccolo cerchiamo di avere coltivazioni che impattino il minimo sull’ambiente: parliamo di concimazione, fitofarmaci, illuminazione, dispendio energetico, irrigazioni… Abbiamo ridotto al minimo per una scelta che è stata voluta ma, a posteriori, azzeccata».
Si riferisce ai crescenti problemi ambientali?
«I tempi sono quelli che sono: le difficoltà sono sempre maggiori. Certo, chi ha coltivazioni più delicate risente di più dei problemi legati al cambiamento climatico, chi fa verde e fogliame resiste meglio a periodi di siccità, a sbalzi di temperature. Le piante ne risentono di meno. Sono contento quindi di avere delle coltivazioni ecosostenibili: usiamo pochissimi fitofarmaci, ricicliamo quasi completamente l’acqua piovana con le vasche di raccolta delle serre, molto utile e che permette sia di ridurre le spese sia di riciclare una risorsa importante. Quanto alla concimazione con prodotti chimici, che si è sempre dovuta fare, ne usiamo molto pochi».
Nello specifico, di che piante vi occupate?
«Siamo specializzati, da praticamente 30 anni, in Asparagus Myriocladus: è la nostra coltivazione di punta e si fa in serra. Poi ci sono i classici Eucalyptus Cinerea, Populus, Stuartiana. La maggior parte del prodotto ha mercato italiano, circa l’80%. Abbiamo clienti che servono quasi sempre il nord Italia, dal Piemonte alla Lombardia, dal Veneto al Friuli. Il resto va all’estero, per buona parte est Europa».
Si lavora costantemente tutto l’anno?
«Per quanto riguarda il Myriocladus, abbiamo una produzione costante, non c’è mai un periodo dell’anno in cui le piante sono ferme, non lavorano e si rasano a zero. Certamente in primavera la pianta tende a produrre un pochino di più, ma normalmente ha una produzione costante nel corso dell’anno. E così la vendita, pressoché costante durante tutto l’anno: il Myriocladus non ha una particolare caratteristica, viene usato come riempitivo. Il periodo che registra il massimo della vendita è la ricorrenza dei Santi e dei Morti, abbiamo 15 giorni molto intensi in quell’occasione, perché è molto usato in quell’ambito».
Cosa le piace di più del suo lavoro?
«A me piacciono le piante: in generale la trovo una cosa bella, mi piace accudirle. Sono tra coloro che dopo una giornata in campagna tornano a casa e si dedicano al giardino! Oltre all’amore per le piante, un altro aspetto è forse più sentimentale: la mia famiglia si è sempre dedicata a questo lavoro, provo rispetto per quello che è stato il loro grande impegno nelle campagne, che si vede tutti i giorni e che quotidianamente mi fa andare avanti. I miei bisnonni sarebbero contenti di vedere che c’è qualcosa e che prosegue. Sto bene a contatto con la “natura”: riuscire a trarne qualcosa, rispettandola, mi ha sempre gratificato».
Intervista della nostra collaboratrice Alessandra Chiappori.