Pietrabruna, dalla valle del San Lorenzo, racconta la sua storia tra gli ulivi, la lavanda e non solo. Massimo Giordano è uno storico coltivatore che oggi si dedica all’oliveto mentre l’attività florovivaistica è in mano al figlio Jacopo, che si occupa dei campi in piena aria gestiti fuori suolo.

Abbiamo fatto qualche chiacchiera sull’azienda, le sue produzioni e le problematiche del settore con Massimo Giordano.

Ci racconta un po’ di storia della sua azienda?

«Siamo una piccola azienda a conduzione familiare, come quasi tutte le aziende dell’entroterra. I miei hanno sempre fatto questo lavoro, prima di me mio padre, mio nonno… Una volta coltivavano solo l’uliveto, poi nel corso degli anni Sessanta e Settanta c’è stato il boom della coltivazione della lavanda, e negli anni Ottanta siamo passati alla coltivazione degli anemoni, oltre all’olivicoltura che è rimasta. Abbiamo avuto un “innamoramento” momentaneo per le fronde verdi, ma è stato molto rapido. Attualmente io ho in carico l’oliveto, mio figlio ha invece continuato l’attività con una coltivazione di anemoni e parzialmente di ranuncoli. È una coltivazione un po’ più moderna, in fuori suolo».

Com’è la vostra giornata tipo?

«In azienda ci siamo io e mio figlio . Sveglia all’alba, e poi finché ce n’è si va avanti! Attualmente stiamo seguendo una coltivazione di settembrina, un cespuglio che fa degli steli fioriti, una fronda fiorita. La facevamo trent’anni fa, dopo aver smesso c’è stata di recente l’occasione di ricominciare, è stata una sorta di scommessa parzialmente vinta».

Che effetti ha la crisi climatica sul lavoro di una realtà come la vostra?

«Forse per l’uliveto sarà una stagione straordinaria, così sembra, anche se non è il caso di sbilanciarsi. Per quanto riguarda la floricoltura, le problematiche che comporta il cambiamento climatico sono legate al fatto che le estati si protraggono molto nel tempo: nei mesi che dovrebbero essere autunnali, settembre e ottobre, sembra ancora estate. Oggi no, ma negli ultimi anno abbiamo avuto autunni in cui sembrava quasi di essere a luglio, e questo comporta parecchie problematiche: noi usiamo dei bulbi “forzati”, che hanno fatto un periodo in cella frigorifera a bassa temperatura per simulare l’inverno, quindi per loro nel momento del trapianto sarebbe primavera. Il problema è che con questo caldo la pianta soffre e, non trovando le condizioni adatte, ritarda moltissimo la produzione. Sempre che non ci siano problemi sanitari…»

Ne avete avuti?

«Di vari tipi negli ultimi anni. La lotta con il patogeno è molto difficile, infatti abbiamo inaugurato la produzione in fuori suolo provando ad abbandonare il terreno e spostandoci sessanta centimetri più alto per vedere che cosa succedeva. Spesso arrivano insetti o funghi che non erano presenti nel nostro territorio, e quando arrivano non hanno nemici naturali e proliferano».

Quale è il mercato della vostra azienda?

«Le nostre produzioni prendono principalmente la via dell’esportazione. Facciamo parte della società cooperativa di Pietrabruna, di cui sono stato presidente per 21 anni, mentre oggi sono nel consiglio di amministrazione. La cooperativa a sua volta è associata a Florcoop nella cui “pancia” finisce il prodotto. Gli anemoni vanno quasi totalmente all’estero, la settembrina invece è una produzione più di nicchia e finisce per lo più in Italia: è un fiore bianco e serve molto per i matrimoni, questo è un periodo in cui è richiesto, specie nel nord Italia».

Come ha visto cambiare questo settore negli anni?

«È cambiato praticamente tutto. Sono cambiate le aziende, il mercato, gli esportatori, i commercianti… le aziende si sono ridotte proporzionalmente da 5 a 1, e così anche i commercianti. Tutto ha comportato una riduzione della produzione e di conseguenza del mercato stesso»

Come si sopravvive?

«Ci si prova! È molto difficile capire come viene costruito il prezzo. Per esempio sulla settembrina l’alternativa alla nostra, che è di qualità media, è quella olandese, che ha prezzi doppi rispetto alla nostra, dunque si riesce a essere competitivi vendendola a un prezzo inferiore. Però è vero che loro ce l’hanno 12 mesi l’anno, al contrario nostro»

Ci sono tantissimi fattori in gioco…

«C’è una sola cosa che consente alle nostre aziende di sopravvivere, ed è il fatto che sono aziende a conduzione familiare: se ci fossero persone a libro paga, a fine mese, come si suol dire, non ci resterebbero nemmeno le lacrime per piangere! Essendo molto piccoli, invece, se le cose non vanno malissimo il lavoro si riesce a pagare. Le aziende più grandi che ci sono in zona, che comunque sono sempre piccole rispetto al resto del mondo, sono tutte in difficoltà. Il settore è complicato, ma se uno fa tutto in proprio alla fine riesci a stare in piedi».

Cosa c’è nel futuro della vostra azienda?

«Qui da noi il territorio può rappresentare un problema: certi interventi si fanno con fatica, perché i terreni sono acclivi, le strade di accesso sono faticose. Avevamo però fatto un investimento per i tempi abbastanza controcorrente: impegnarci nella coltivazione fuori suolo ci ha fatto un po’ passare per matti. Però l’abbiamo fatto in prospettiva, sapendo che sarebbero stati tolti dal commercio alcuni geodisinfestanti e quindi avremmo incontrato difficoltà nella disinfezione del terreno, terreno che poi dopo tanti anni di sfruttamento non dà più risposte. L’azienda ora come ora è strutturata in questo modo e così dovrebbe rimanere. Ogni tre-quattro anni sostituiamo i substrati dove coltiviamo, quella è stata la nostra scelta e ora siamo legati a quell’impianto. I problemi sono all’ordine del giorno e bisogna sempre provare a gestirli»

Quale è il fiore che le ha dato più soddisfazione?

«In controtendenza, direi che i ranuncoli sono quelli che coltivavo con più passione nonostante ci fossero dei periodi in cui ti facevano diventare matto! Bisognava infatti controllare tutti i giorni che non ci fossero funghi del terreno e del substrato che mangiavano i rizomi. E poi l’anno scorso sono finito su Rai3, al TGR Officina Italia: mio figlio che è titolare non ha voluto partecipare, e così è toccato a me!»

Intervista della nostra collaboratrice Alessandra Chiappori.

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